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La mia storia, la mia scultura

Sul finire degli anni Settanta mi sono chiesto se il discorso sulla scultura, portato avanti da Constantin Brancusi, Arturo Martini e Fausto Melotti, potesse avere un seguito.
Mi sono chiesto se le loro opere, oltre ad essere ciò che sono e dicono, fossero anche una via da seguire verso un’innovazione nella tradizione del linguaggio plastico.
Mi sono chiesto se agli artisti del mio tempo sfuggisse qualcosa riguardo alla lezione dei maestri del Primo Novecento.

Facciamo un passo indietro, nel 1972, completato il corso di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, ho fatto una scelta riguardo alle tendenze artistiche del mio tempo, ho scelto la manualità e le tecniche tradizionali, rispetto alle espressività più astratte e concettuali di quegli anni. Una scelta non contro quelle nuove frontiere della ricerca estetica (Performance Art, Arte Povera, Pop Art, Video Art e altro) ma a favore di un’esperienza tattile, manuale, che ha fatto la storia della figurazione. Una scelta di formazione, per me che ero cresciuto nella Bottega ceramica di mio padre a Grottaglie, maturata in Accademia a Firenze, “alla scuola” dei grandi  maestri del Rinascimento.

Tornando al panorama culturale del mio tempo, nella seconda metà degli anni Settanta, Bonito Oliva, con la sua Transavanguardia, teorizzava un ritorno alla manualità e Paolo Portoghesi, nel 1980, con la sua Strada Novissima, alla Biennale di Architettura di Venezia, dava corpo e forma a quella corrente estetica e di pensiero chiamato Postmoderno. A quel “presente che guarda al passato” in cui in qualche misura mi rivedevo.
In quegli anni di crescita professionale e artistica, ho vinto due Concorsi Nazionali per Opere Pubbliche e partecipato alla Quadriennale di Roma nel 1975. Poi l’insegnamento – l’arte di conoscere e saper comunicare i saperi dell’arte – ha allargato gli orizzonti della mia ricerca estetica; lo studio, la didattica e il lavoro in fonderia non mi lasciavano molto tempo per mostre o concorsi. Dovevo scegliere tra fare l’artista o l’artigiano, come lavoro a tempo pieno, e l’insegnamento come professione; magari portando avanti il mio discorso sulla scultura libero da vincoli con il mercato dell’arte.

Detto questo, torniamo all’innovazione nella tradizione del linguaggio plastico. Torniamo a Brancusi, Martini e Melotti, maestri scultori di un’arte “senza tempo”, almeno per due ragioni: la prima riguarda la corrispondenza al registro semantico di ciò che da sempre, la storia e l’umano sentire riconosce come arte plastica, come arte della scultura millenaria e universale, la seconda riguarda l’approccio tattile – ragionato e manuale – del loro dire, pensare, fare scultura. Ecco, con un certo orgoglio, so di essere in linea con quel presupposto spirituale che cerca nel governo della materia un pensiero o un racconto da figurare.
Come prima dicevo, sul finire degli anni Settanta, pensavo che la scultura come ricerca e l’insegnamento come professione potessero bastare, invece, la didattica e le sue problematiche teoriche, e la scultura nel racconto del sacro e del simbolico, sono diventati l’esperienza estetica nella quale ancora mi specchio. Per quarant’anni (sia pure in maniera discontinua) ho cercato le “forme semplici”, lo “spirituale”, gli “universali”, nel racconto e nelle forme della scultura. Ho cercato nella bellezza e nel rigore del segno geometrico, le radici del sacro e il significato della mia scultura.
Per quarant’anni ho insegnato i saperi e le forme del linguaggio delle immagini, un’esperienza professionale, che mi ha fatto crescere come insegnante e come persona. Scultore, invece, lo sono sempre stato – o tale mi sono sentito – sino a quando ho capito che per esserlo davvero dovevo guardare alle radici, alla storia della scultura, dovevo guardare al suo millenario racconto. Avevo un progetto da sviluppare ma avevo bisogno di tempo, sapevo cosa fare ma ero lento. Ero lento, ambizioso e fuori dal mercato dell’arte.

Negli anni Ottanta e Novanta ho disegnato, modellato e poi realizzato, in poliestere e in bronzo, modelli per sculture da ingrandire in travertino, granito o in bronzo. Sono la mia scultura “finita”, “compiuta”, poiché, anche solo un modello o un progetto possono bastare quando non si hanno i mezzi per ingrandire. Quando per propri limiti o per scelta, si è fuori dal quel circolo esclusivo – culturale e commerciale – che è il mondo dell’arte. Oltre a queste sculture iconiche, astratte, totemiche, tra gli anni Ottanta e Duemila, ho portato a termine un ciclo di opere più piccole, lineari, leggere, quasi dei disegni sospesi nell’aria. Realizzate in ottone lavorato a freddo, sono figurazioni, racconti e tanto altro. Sono la mia scultura libera, il mio “canto libero”, nel registro e nel lessico di quest’antica arte.

Ora però, se queste note fossero una più estesa conversazione sul mio lavoro, altro ci sarebbe da dire riguardo alla rinuncia – pure sofferta e controversa – al dialogo con il presente del mondo dell’arte. Come già detto, avevo bisogno di tempo per dar corpo e forma al mio discorso sulla scultura. Dovevo mettere assieme un certo numero di opere per propormi in qualche mostra o concorso, invece, con il tempo, l’attesa si è fatta rinuncia. Non ho più cercato la critica, le istituzioni, il mercato.
Diciamo che sono in un altro racconto – in un’altra “scala di valori” – non riguardo alle ragioni dell’arte, ma nei confronti del sociale, del mercato, divenuto la prima voce, se non l’“autorità culturale” dell’arte stessa.
Insomma, ho fatto scultura per studio, per ricerca (o magari solo per me stesso), ma ho fatto scultura. Ho fatto scultura perché ho cercato in quell’arte un mio racconto. Ho cercato nel suo racconto un’appartenenza, una risonanza elettiva, sapienziale, con cui dialogare… fare scultura.